L’insulto nei confronti del prorio dipendente, anche se profferito nel contesto lavorativo e per questioni ad esso afferenti, integra il reato di ingiuria, di cui all’art. 594 c.p.
E’ quanto hanno puntualizzato gli Ermellini nella sentenza n. 35099 del 29 settembre scorso, così decidendo il caso di un imprenditore che, condannato in primo e secondo grado per il reato di ingiuria, si era rivolto al Supremo Collegio per vedersi annullata la decisione.
Nel confermare l’approdo dei precedenti giudicanti, la Suprema Corte ha puntualizzato, al contrario, che il contesto lavorativo, nella valutazione dell’offesa, non può costituire né circostanza attenuante, né esimente.
Ciò in quanto il ragionare in tal senso, continuano i giudici,  equivarrebbe a “tradursi in un’insostenibile affermazione di abrogazione per desuetudine di norme penali in quanto proiettate in un quadro sociologicamente e/o culturalmente disegnato dal giudice. Questa depenalizzazione di condotte trasgressive riveste spiccata insostenibilità in materia di rispetto della dignità umana, ancora maggiore quando è in gioco la dignità del lavoratore”. (© Avv. Dario Avolio)