La pratica del mobbing consistente nel vessare il collega di lavoro subordinato o il dipendente con svariati metodi di coercizione psicologica e fisica non costituisce reato penalmente perseguibile.
E’ quanto ha stabilito la V sezione penale della Cassazione confermando, così, una sentenza di non luogo a procedere emessa dal Giudice d’appello nei confronti di un preside accusato da un docente.
L’orientamento del Supremo collegio è quindi univoco nel qualificare il mobbing unicamente come illecito civile con conseguente possibilità per i lavoratori mobbizzati di chiedere solo il risarcimento del danno.
Pur in mancanza di una disciplina specifica anche in campo civilistico, infatti, la tutela dei lavoratori, in tale ambito, è comunque garantita dalla possibilità di applicare le norme presenti nel vigente ordinamento giuridico.
E così il lavoratore potrà, innanzitutto, far valere una responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., per non avere lo stesso adempiuto uno degli obblighi specifici nascenti dal contratto di lavoro consistente nella salvaguardia dell’integrità psico-fisica e morale dei dipendenti che verrebbe irrimediabilmente compromessa dalle condotte mobbizzanti nel caso in cui queste abbiano cagionato pregiudizi alla salute.
Laddove, al contrario, la pratica di mobbing consistesse nell’intento di dequalificare il lavoratore assegnandolo a mansioni inferiori o, addirittura, privandolo di compiti lo stesso potrebbe chiedere anche la condanna al risarcimento del danno alla professionalità, ex art. 2103 c.c.

Sempre sotto il profilo civilistico la vittima mobbizzata potrebbe ulteriormente invocare la tutela offerta dall’art. 2043 c.c.  sulla scorta del più generale principio del neminem laedere agendo contro i colleghi che abbiano provocato un danno ingiusto, biologico o morale, mediante la perpetrazione di un qualsiasi fatto doloso. (© Dario Avolio)