Nella recentissima sentenza n. 48379/2008 la Sesta Sezione Penale della Suprema Corte ha ritenuto perfettamente ascrivibile il reato di cui all’art. 328 c.p. (rifiuto d’atti d’ufficio-omissione) in capo al medico-chirurgo reperibile che, dopo essere stato contattato, rifiuta di tornare in ospedale anche laddove il malato, a posteriori, non presenti situazioni di reale urgenza che giustificavano l’intervento.
Tale dictat è giustificato dall’obbligo, che incombe in capo al chirurgo in servizio di reperibilità, di intervenire repentinamente senza poter sindacare a distanza le reali condizioni d’urgenza che potrebbero far ritenere anche non necessario il suo intervento.
L’istituto della reperibilità, infatti, precisano i giudici del Supremo Collegio, “costituisce una modalità organizzativa dei servizi apprestati dalle aziende sanitarie ed è disciplinato dall’art. 25 del DPR 25 giugno 1983, n. 348, recante trattamento del personale delle unità sanitarie locali (G.U. 20 luglio 1983, n. 197), successivamente sempre richiamato o ripreso dai contratti collettivi nazionali dell’area della dirigenza medico – veterinaria del servizio sanitario nazionale.
Tale servizio ‘è caratterizzato dall’immediata reperibilità del dipendente e dall’obbligo per lo stesso di raggiungere il presidio nel più breve tempo possibile dalla chiamata’”.

Sulla scorta di tali argomentazioni la Suprema Corte ha quindi ritenuto penalmente rilevante la semplice violazione del riferito obbligo che viene integrata dal rifiuto di rendersi reperibile in caso di chiamata anche in assenza della necessità di un intervento chirurgico. (© Avv. Dario Avolio)